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L'elastico | 23.04.2018
L'elastico
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Un'azzeccata e poetica metafora delle relazioni umane.
Ci sono persone che sono
legate da un elastico
e non lo sanno.
A un certo punto prendono e partono,
ognuna per la sua strada,
ognuna per i fatti suoi,
e l'elastico le lascia fare,
le asseconda, al punto che
di quell'elastico alla fine quasi
ci si dimentica. Poi però,
arriva il momento estremo,
quello al limite dello strappo,
e l'elastico reagisce, non si spezza,
anzi, piuttosto, con un colpo solo,
violentissimo, le fa ritrovare di nuovo
faccia a faccia.
(Simona Sparaco)
La lezione di J. K. Rowling: «Anche fallire ci rende liberi»
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La scrittrice ai neolaureati di Harward: «Tutto andava storto, smisi di illudermi». Di Emanuele Trevi
Come parlare a un pubblico di persone molto giovani, in un giorno importante della loro vita? In che senso l’esperienza accumulata, l’eventuale successo, il disincanto di chi invecchia possono risultare utili a chi ha ancora i piedi sulla linea di partenza, e non ha, non può avere la minima idea di come andranno le cose? La tradizione dei discorsi ai laureati nei campus americani è molto istruttiva anche per chi vive in un Paese come il nostro, dove il giorno della laurea è indubbiamente meno solenne e spettacolare, e un pranzo in famiglia sostituisce lunghi riti ed elaborate cerimonie. È dunque da salutare come un’ottima idea la traduzione italiana del discorso tenuto ai neo-laureati di Harvard da J. K. Rowling.   Gesti pedagogici efficaci Mai come in questi tempi, percepiamo la rarità e la difficoltà dei gesti pedagogici realmente efficaci. È troppo facile mettere questa difficoltà sul solito conto, sempre aperto, della crisi dei valori e degli orizzonti di significato suggeriti da quei valori. Sarebbe come dire che la realtà, nel suo complesso, è diventata la conseguenza di errori talmente irrimediabili che non siamo più capaci di trasmettere dei sentimenti che siano appropriati alla ricchezza, alla violenza, alla fondamentale ambiguità della vita. Di fronte agli argomenti strettamente razionali di una visione tecnocratica, questi sentimenti, bisogna ammettere, sono del tutto inutili. In teoria, un flusso ordinato di informazioni da una generazione all’altra potrebbe prescindere da ogni idea di formazione. È proprio per questo che una tradizione come i discorsi ai laureati può rivelarsi preziosa.         Il paragone con Steve Jobs L’arte oratoria, affrontata con la necessaria autenticità umana, produce scintille di vera poesia. Leggendo il testo della Rowling, viene naturale confrontarlo a una simile occasione perfettamente sfruttata, il celebre discorso ai neolaureati di Stanford pronunciato da Steve Jobs il 12 giugno del 2005. Come figure del mondo adulto che si rivolgono a dei giovani, il padre del Mac e la mamma di Harry Potter hanno dovuto superare una notevolissima difficoltà iniziale. Oltre un certo livello, il successo può azzerare la credibilità umana, minando l’empatia necessaria a esprimere un’emozione reale. Entrambi gli oratori hanno aggirato l’ostacolo che li separava dal loro pubblico percorrendo una strada impervia, ma alla fine efficace.   Lettura obbligatoria Bisognerebbe fare dei loro discorsi una lettura obbligatoria per chiunque si dedichi a un’attività di insegnamento, di educazione. Steve Jobs raggiunse il cuore del suo pubblico quando decise di mettere al centro del suo ragionamento il più impopolare degli argomenti, il meno adeguato a una festa per laureati: la morte, il ruolo della morte in una vita libera e felice. Non meno geniale è la strategia di J. K. Rowling, che ai laureati di Harvard sbatte in faccia un argomento che forse, in quel contesto culturale, è anche peggiore della morte. Il primo dei due argomenti che tratta, infatti, è il fallimento. O meglio, i benefici del fallimento, «fringe benefits» nell’originale, con un’allusione intraducibile ai fondi pensione, come a voler suggerire che proprio lì, nella cosa che spaventa tanto, c’è un’inestimabile riserva di futuro. A soli sette anni dalla laurea, racconta la scrittrice inglese, tutto era andato storto, dal matrimonio alle aspirazioni lavorative. «Non conoscevo nessuno più fallito di me».   Il fallimento Se J. K. Rowling a questo punto avesse suggerito ai suoi giovani ascoltatori che c’è qualcosa di buffo o di romantico in questo tipo di avversità, la sua non sarebbe stata che una mistificazione, una vuota esercitazione retorica. No, non c’è nulla di bello, di per sé, nel fallimento. Il bene non consiste nella cosa, ma nel suo riflesso psicologico. La giovane donna che vedeva inesorabilmente realizzarsi le sue più grandi paure proprio per questo motivo, senza nemmeno volerlo o meritarselo, era diventata un essere umano più libero. Ma da che cosa ci libera la sensazione dolorosa di avere fallito? Questo è il punto più essenziale del ragionamento.   L’illusione «Smisi di illudermi di essere qualcosa che non ero», ricorda la Rowling, con la sua abituale capacità di esprimere cose grandi in poche e semplici parole. Quando le cose non vanno, siamo costretti a rinunciare a quel disordine di possibilità, a tutte quelle molteplici immagini di ciò che potremmo essere che soffocano e tengono prigioniero ciò che veramente siamo. Non siamo noi a fallire, ma i nostri fantasmi. Coniugata alla capacità di immaginazione, la consapevolezza del fallimento diventa, nel racconto della Rowling, la chiave d’accesso all’unica vita che è possibile vivere. È un’idea semplice e memorabile, quella offerta dalla scrittrice agli studenti di Harvard. Essere più vecchi non ci abilita a trasmettere verità. È solo l’esperienza che si può insegnare: a patto di averla vissuta fino in fondo, spremendone il senso fino all’ultima goccia.

QUANTO VALGONO LE RELAZIONI IN AZIENDA?
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Tanto. Anche dal punto di vista economico. Per esempio, un conflitto mal gestito può generare danni che si ripercuotono sul fatturato.
L’economia, negli ultimi anni, sta riconsiderando sempre di più l’importanza dell’aspetto umano, in particolare le relazioni che gli individui stringono e che influenzano notevolmente le decisioni economiche. Oggi infatti si parla sempre più spesso dei cosiddetti RELATIONAL GOODS ovvero dei BENI RELAZIONALI. Di cosa si tratta? I beni relazionali sono quei beni non materiali che possono essere prodotti e consumati solo in gruppo e che sono intrinsecamente collegati alle relazioni e alle interazioni. Un classico esempio utilizzato per spiegarli è quello del godimento che proviamo nel vedere una partita allo stadio, dove il piacere di assistere al match deriva in gran parte dalla presenza di un’ampia folla. Il bene relazionale in questo caso si esprime in termini di eccitamento e gratificazione di tutto lo stadio. Queste sensazioni e stati d’animo non si verificano quando  il singolo guarda la partita  a casa da solo,  per provarle c'è bisogno della collettività.   L’economista e accademico Luigino Bruni ha identificato le sette caratteristiche base dei beni relazionali: 1) IDENTITÀ’ l’identità delle singole persone coinvolte è un ingrediente fondamentale. Infatti, i beni che si presentano negli scambi dove ognuno può offrire in maniera anonima non sono relazionali. 2) RECIPROCITÀ’ i beni fatti di relazioni possono essere goduti solo nella reciprocità, sono beni di reciprocità. 3) SIMULTANEITÀ’ a differenza dei normali beni di mercato, siano essi privati o pubblici, dove la produzione è tecnicamente e logicamente distinta dal consumo, i beni relazionali (come molti servizi alla persona) si producono e si consumano simultaneamente; il bene viene co-prodotto e co-consumato al tempo stesso dai soggetti coinvolti. Anche se la contribuzione alla produzione dell’incontro può essere asimmetrica (pensiamo all’organizzazione di una festa tra amici o alla gestione di una cooperativa sociale), nell’atto del consumo del bene relazionale non è possibile il “free rider” puro perché il bene relazionale, per essere goduto, richiede che si lasci coinvolgere in una relazione. 4) MOTIVAZIONI la spinta dei soggetti a interagire deve essere genuina e non un mezzo per arrivare a un altro fine. 5) FATTO EMERGENTE concepito come l’affiorare del bene relazionale all’interno di una relazione qualsiasi, anche in casi in un cui esso non era previsto inizialmente (per esempio all’interno di un rapporto d’affari dove la finalità iniziale era un’altra). 6) GRATUITÀ il bene relazione non deve avere un fine economico ma deve essere gratuito. 7) BENE il bene relazionale è un bene, ma non una merce, questo implica che abbia un valore ma non un prezzo. Grazie ad una ricerca realizzata nel 2009 da Becchetti & co. Sulla relazione tra “reddito, beni relazionali e felicità” (argomento già trattato da Richard Easterlin nel 1974) è emerso che l’incremento del consumo dei beni relazionali è fortemente collegato alla felicità: più il reddito delle persone è alto meno sono presenti questi tipi di bene e, di conseguenza, più bassa è la felicità. Questo deriva principalmente dal fatto che coloro che hanno un reddito molto elevato tendono a lavorare il doppio e ad avere poco tempo per se stessi e gli altri. Prendere coscienza dell’importanza dei beni relazionali, all’interno del mondo del lavoro, è importante per creare e mantenere un clima di benessere e collaborazione.   Inoltre, saper gestire e capitalizzare tali beni aiuta l’individuo a muoversi meglio nel proprio ambiente lavorativo e quindi anche a divenire più produttivo. Ecco perché i beni relazionali, alla fin fine, acquistano perfino un valore economico. Ed ecco perché, per le aziende, è ancora più importante farne tesoro.                        
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