In occasione dell'uscita del libro "L'ELEGANZA DELL'OKAPI", abbiamo intervistato l'autore: Denis Delespaul, presidente di BNP Paribas Leasing Solutions, che con Elena Zargani Piccardi racconta il suo modo di vedere l'azienda. Con occhio da regista.
Denis, come si evince da questo libro, la componente per
così dire “teatrale” della managerialità, il contesto come palcoscenico, il
ruolo e la posture ovvero il modo in
cui ci si pone nell’esercizio della funzione, sono tutti aspetti essenziali per
te.
Una volta hai addirittura paragonato l’azienda alla Commedia
dell’Arte… che cosa intendevi dire esattamente?
L’Azienda è una specie di
microcosmo, accadono, in piccolo, le stesse dinamiche tragicomiche della vita. E’
come essere in un teatro greco dove gli eventi seguono le regole classiche:
unità di luogo, di tempo e di azione. E, come nel teatro greco, affiorano tutti
i sentimenti umani.
Un esempio?
Basta vedere che cosa scatena,
ad esempio, un evento banale come l’improvvisa rottura della macchinetta del
caffè: perfino una sciocchezza come questa è sufficiente per far debuttare
sulla scena aziendale emozioni primordiali.
A volte i protagonisti ricordano gli eroi di
Sofocle ed Euripide ma a volte invece si avvicinano di più ai personaggi della
commedia dell’Arte: Arlecchino, Colombina, Brighella, Pantalone. Che altro non
sono se non cristallizzazioni di sentimenti atavici.
Certo. E Forse anche qualcosa di più; penso al significato
originario della parola maschera: vuol dire “persona”. La maschera rappresenta
un po’ l’idea che abbiamo di noi stessi e che vogliamo comunicare al mondo. Il sociologo Ervin Goffman dice: “Entriamo nel
modo come individui, acquistiamo un carattere e diventiamo persone.”
Ma sociologia a parte, toglimi una curiosità: che tipo
di maschera tu è capitato più spesso di incontrare nella tua carriera?
Un po’ di tutti i tipi…
Di Arlecchini ne hai incontrati?
Qualcuno.
.
E cosa pensi di ciò
che rappresenta questo personaggio, che tra l’altro è il più famoso,
forse anche il più amato della Commedia dell’Arte?
Arlecchino ha tanti difetti.
Conosciamo tutti la sua pigrizia, la sua vigliaccheria e la sua propensione per
le bugie.…Tuttavia possiede anche alcune qualità del leader.
Ma davvero? E quali?
Arlecchino ha grande energia
e voglia di stare al centro: vuole essere dappertutto, in più posti
contemporaneamente. Anch’io, specialmente nei primi anni della mia carriera, ho
vissuto questo desiderio di essere presente ovunque, per esempio anche in
riunioni dove non avevo un ruolo preciso. Ma volevo esserci lo stesso e questo,
spesso, si è rivelato d’importanza strategica. La componente “Arlecchino” è un
po’ come il motore: inquina qualche volta, ma serve.
E invece, un personaggio che hai incontrato e che sia tutto l’opposto di di Arlecchino?
Il Cid Campeador, l’eroe di
Corneille.
Così passiamo dalla commedia alla tragedia. Vediamo se mi ricordo la storia… Il
Cid, Rodrigo, è innamorato della bella Chimena ma è costretto a ucciderne il
padre per una faccenda d’onore, pur sapendo che così si giocherà l’affetto
dell’amata.
Quello che colpisce nella
tragedia di Corneille è l’etica, che Rodrigo porta a un altissimo livello. Il padre
del Cid chiede al figlio di combattere in duello contro il padre della sua
Chimena e lui accetta, pur sapendo quale prezzo dovrà pagare.
Quindi il leader ideale per te è il Cid?
No. Il leader ideale è
Corneille oppure Goldoni. In scena non lo vediamo ma è lui che tira fuori il
meglio o il peggio delle persone: tutti noi abbiamo dentro sia il Cid che
Arlecchino. Se sono un bravo manager, tiro fuori dai miei collaboratori il Cid,
se sono un cattivo manager, invece, da loro tiro fuori Arlecchino o peggio.
Colpo di scena: da protagonista diventi autore o
regista. E come sta questo con la tua voglia di stare sulla scena?
Ecco, questo è decisamente un
punto chiave: ha a che fare con l’evoluzione del nostro mondo. Penso che stiamo
vivendo una rivoluzione nel modo di condurre e governare le aziende. Andiamo
verso la fine del taylorismo e stiamo passando da una leadership del comando e
del controllo a uno stile di management che “in scena” ci manda sempre di più i
collaboratori. Oggi spesso sono i collaboratori, più dei capi, a instaurare una
relazione diretta con gli stakeholder.
Goffman, rifacendosi proprio al mondo del teatro,
sostiene che ci sono due tipi di leadership: la leadership espressiva, quella
dell’attore che sa dominare la scena; e la leadership di regia, in cui il
potere si esercita prevalentemente da dietro le quinte.
Qual è che ti appartiene di più allo stato attuale?
Nella cultura
manageriale in cui sono cresciuto ho
prevalentemente esercitato una leadership espressiva. Ma oggi mi sto spostando sempre
di più verso quella di regia anche se non nascondo che questa trasformazione
intima è un percorso profondo e difficile che richiede curiosità e tanta
umiltà.
Del resto, anche nel mondo
dello spettacolo tanti celebri attori sono passati alla regia: Clint Eastwood,
solo per citarne uno. E, se mi consenti di andare qualche secolo più indietro,
lo stesso Molière, prima di mettersi a scrivere le sue famose commedie, calcava
il palcoscenico.
Che cos’è che ti spinge verso la leadership di regia?
Ti racconto un episodio: alla
fine degli anni Novanta, ho organizzato una Convention Generale e ho deciso che
avrei fatto salire sul palco i giovani manager. Mentre li guardavo parlare, seduto
tra gli spettatori, ho avuto un grande sentimento di orgoglio. Mi sono detto:
“Io ho contribuito a creare tutto questo!”.
E di che cos’è che eri orgoglioso, soprattutto?
In un’organizzazione, le
persone sono come velivoli che viaggiano tutti ad altezze diverse. Il leader ha
l’obiettivo di portare verso l’alto anche chi è abituato a viaggiare più in
basso. Spesso mi capita di essere in riunione con alcuni collaboratori molto
bravi e scrupolosi ma con la testa china sul loro campo di competenza tecnica.
Io cerco di fargliela alzare. Voglio che si alzino in volo per vedere non solo
il dettaglio ma anche la panoramica e soprattutto per cogliere il senso
profondo di ciò che stanno facendo.
Ogni volta che ci riesco,
provo una soddisfazione molto più profonda e duratura di quella che mi darebbe
una mia performance personale.
Guardare le cose dall’alto, Portare gli altri verso
l’alto. Cos’altro è importante per il manager oltre che andare in su?
Andare in giù. Prestare
attenzione a tutto quello che sta in basso ovvero alla base. Il manager
efficace deve essere curioso e rendersi conto, con i suoi occhi e le sue
orecchie, di ciò che accade e di come le persone, a tutti i livelli, vivono
l’azienda.
Tanti anni fa, quando eravamo
ancora in pochi, io alla sera mi mettevo vicino all’uscita e chiedevo a tutti:
“Com’è andata la tua giornata?” E se solo percepivo un vago malessere,
insistevo per saperne di più…
Non è facile ottenere risposte sincere nei panni di
amministratore delegato. Forse avresti dovuto travestirti.
Luigi XI lo faceva: si
mascherava e andava in giro per Parigi, tra il popolo, chiedendo: “Cosa ne
pensate del re?” Non gli bastava quello che gli riferivano i suoi consiglieri. Fu
soprannominato il “re prudente” ma gli fu riconosciuto anche di aver dato alla Francia dell’epoca
unità e stabilità.
Ricoprire un ruolo vuol dire per forza mentire e non
essere più se stessi?
Sono tra coloro che pensano
che il fine non giustifichi i mezzi.
Quindi per me il manager non
può mentire. (Anche se la sincerità non va confusa con l’assenza di
riservatezza.)
Io non racconto bugie, a
costo di provocare, talvolta, qualche malumore. Confido nell’intelligenza delle
persone ma soprattutto nella possibilità che gli altri percepiscano in me autenticità
e trasparenza. Del resto, solo i valori e i comportamenti virtuosi di un leader
possono creare coinvolgimento e condivisione.
E la tua fiducia è sempre ben riposta?
No, qualche volta mi succede
di venire deluso e ti confesso che
questo non mi fa dormire bene la notte. Tuttavia, il rischio più subdolo
che vedo non è quello di essere ingannati ma piuttosto quello di mentire a se
stessi.
A volte le persone sono sinceramente convinte di
potercela fare.
Un leader deve senz’altro
considerare la motivazione del
collaboratore come un tesoro insostituibile ma, allo stesso tempo, non
può prescindere dal valutare le capacità e i mezzi effettivamente posseduti
dalla persona. Al di là dell’entusiasmo.
Già. Una bugia può venire smascherata mentre
erodere una convinzione radicata da anni
è molto più difficile.
A proposito di convinzioni: tu sei proprio sicuro che
la verità e la trasparenza siano le cose più importanti?
Prima di tutto separerei la
verità dalla trasparenza. Spinoza diceva che “le convinzioni non hanno alcuna veridicità” e, qualche secolo dopo,
Nietsche ha aggiunto che “proprio per la
buona fede sottostante “le convinzioni possono essere più pericolose delle
bugie”.
Invece la trasparenza è un
valore importantissimo nella relazione tra il manager e i suoi collaboratori e,
in generale, tra le persone.
Da coach, mi trovo a
pensare che c’è una cosa che è ancora più importante della trasparenza.
E sarebbe?
La sostenibilità. Ovvero la capacità delle persone di
accettare una certa verità e di farci i conti: non tutti ne sono in grado, non
allo stesso livello perlomeno.
A volte non è meglio tacere? O raccontare una piccola
bugia?
L’ho detto e lo ribadisco: il fine non può giustificare i mezzi.
E allora come fai quando hai a che fare con persone non
necessariamente preparate a sentirsi dire certe verità?
Il manager dovrebbe provare
curiosità per gli altri, mettersi nella condizione di capire come funziona l’essere
umano. In altre parole, necessita di sviluppare la propria intelligenza emotiva
per sapere come rapportarsi con persone diverse e come dire, a ciascuno, certe
cose.
Prima di calare il sipario su quest’intervista, ti
racconto un dramma un po’ in stile Sofocle o
Corneille
Ci sono due sorelle, abituate a governare insieme una
certa società. A un certo punto, il grande capo che viene dal Nord decide di
far fuori una delle due. Non solo: chiede all’altra di licenziare la propria
congiunta, come condizione per mantenere il potere. Tu cosa risponderesti?
Ogni volta che mi sono
trovato in situazioni difficili, che implicavano una scelta e una conseguente
rinuncia, ho adottato la regola dei Sette Perché.
Vale a dire?
Chiederei a chi di dovere, in
certi casi anche a me stesso, il perché di certe situazioni.
Perché mia sorella si trova
in questo guaio? Che cosa ha fatto o non ha fatto per indurre il Grande Capo a
compiere una scelta così estrema?
E cosa ho fatto io, a mia
volta, per trovarmi sulle spalle una responsabilità del genere? E avanti di
questo passo.
Quindi si può trovare un lieto fine anche per i drammi alla Cid?
Forse. Io ci provo tutti i
giorni.