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L'azienda? Un po' tragedia, un po' commedia. | 22.09.2016
L'azienda? Un po' tragedia, un po' commedia.
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In occasione dell'uscita del libro "L'ELEGANZA DELL'OKAPI", abbiamo intervistato l'autore: Denis Delespaul, presidente di BNP Paribas Leasing Solutions, che con Elena Zargani Piccardi racconta il suo modo di vedere l'azienda. Con occhio da regista.
Denis, come si evince da questo libro, la componente per così dire “teatrale” della managerialità, il contesto come palcoscenico, il ruolo e la posture ovvero il modo in cui ci si pone nell’esercizio della funzione, sono tutti aspetti essenziali per te. Una volta hai addirittura paragonato l’azienda alla Commedia dell’Arte… che cosa intendevi dire esattamente?     L’Azienda è una specie di microcosmo, accadono, in piccolo, le stesse dinamiche tragicomiche della vita. E’ come essere in un teatro greco dove gli eventi seguono le regole classiche: unità di luogo, di tempo e di azione. E, come nel teatro greco, affiorano tutti i sentimenti umani.   Un esempio?   Basta vedere che cosa scatena, ad esempio, un evento banale come l’improvvisa rottura della macchinetta del caffè: perfino una sciocchezza come questa è sufficiente per far debuttare sulla scena aziendale emozioni primordiali.  A volte i protagonisti ricordano gli eroi di Sofocle ed Euripide ma a volte invece si avvicinano di più ai personaggi della commedia dell’Arte: Arlecchino, Colombina, Brighella, Pantalone. Che altro non sono se non cristallizzazioni di sentimenti atavici.   Certo. E Forse anche qualcosa di più; penso al significato originario della parola maschera: vuol dire “persona”. La maschera rappresenta un po’ l’idea che abbiamo di noi stessi e che vogliamo comunicare al mondo.  Il sociologo Ervin Goffman dice: “Entriamo nel modo come individui, acquistiamo un carattere e diventiamo persone.” Ma sociologia a parte, toglimi una curiosità: che tipo di maschera tu è capitato più spesso di incontrare nella tua carriera?   Un po’ di tutti i tipi…     Di Arlecchini ne hai incontrati?   Qualcuno. .   E cosa pensi di ciò  che rappresenta questo personaggio, che tra l’altro è il più famoso, forse anche il più amato della Commedia dell’Arte?   Arlecchino ha tanti difetti. Conosciamo tutti la sua pigrizia, la sua vigliaccheria e la sua propensione per le bugie.…Tuttavia possiede anche alcune qualità del leader.   Ma davvero? E quali?   Arlecchino ha grande energia e voglia di stare al centro: vuole essere dappertutto, in più posti contemporaneamente. Anch’io, specialmente nei primi anni della mia carriera, ho vissuto questo desiderio di essere presente ovunque, per esempio anche in riunioni dove non avevo un ruolo preciso. Ma volevo esserci lo stesso e questo, spesso, si è rivelato d’importanza strategica. La componente “Arlecchino” è un po’ come il motore: inquina qualche volta, ma serve.     E invece, un personaggio che hai incontrato e  che sia tutto l’opposto di di Arlecchino?   Il Cid Campeador, l’eroe di Corneille.   Così passiamo dalla commedia alla  tragedia. Vediamo se mi ricordo la storia… Il Cid, Rodrigo, è innamorato della bella Chimena ma è costretto a ucciderne il padre per una faccenda d’onore, pur sapendo che così si giocherà l’affetto dell’amata.   Quello che colpisce nella tragedia di Corneille è l’etica, che Rodrigo porta a un altissimo livello. Il padre del Cid chiede al figlio di combattere in duello contro il padre della sua Chimena e lui accetta, pur sapendo quale prezzo dovrà pagare.   Quindi il leader ideale per te è il Cid?   No. Il leader ideale è Corneille oppure Goldoni. In scena non lo vediamo ma è lui che tira fuori il meglio o il peggio delle persone: tutti noi abbiamo dentro sia il Cid che Arlecchino. Se sono un bravo manager, tiro fuori dai miei collaboratori il Cid, se sono un cattivo manager, invece, da loro tiro fuori Arlecchino o peggio.   Colpo di scena: da protagonista diventi autore o regista. E come sta questo con la tua voglia di stare sulla scena?   Ecco, questo è decisamente un punto chiave: ha a che fare con l’evoluzione del nostro mondo. Penso che stiamo vivendo una rivoluzione nel modo di condurre e governare le aziende. Andiamo verso la fine del taylorismo e stiamo passando da una leadership del comando e del controllo a uno stile di management che “in scena” ci manda sempre di più i collaboratori. Oggi spesso sono i collaboratori, più dei capi, a instaurare una relazione diretta con gli stakeholder.   Goffman, rifacendosi proprio al mondo del teatro, sostiene che ci sono due tipi di leadership: la leadership espressiva, quella dell’attore che sa dominare la scena; e la leadership di regia, in cui il potere si esercita prevalentemente da dietro le quinte. Qual è che ti appartiene di più allo stato attuale?   Nella cultura manageriale  in cui sono cresciuto ho prevalentemente esercitato una leadership espressiva. Ma oggi mi sto spostando sempre di più verso quella di regia anche se non nascondo che questa trasformazione intima è un percorso profondo e difficile che richiede curiosità e tanta umiltà. Del resto, anche nel mondo dello spettacolo tanti celebri attori sono passati alla regia: Clint Eastwood, solo per citarne uno. E, se mi consenti di andare qualche secolo più indietro, lo stesso Molière, prima di mettersi a scrivere le sue famose commedie, calcava il palcoscenico.     Che cos’è che ti spinge verso la leadership di regia?   Ti racconto un episodio: alla fine degli anni Novanta, ho organizzato una Convention Generale e ho deciso che avrei fatto salire sul palco i giovani manager. Mentre li guardavo parlare, seduto tra gli spettatori, ho avuto un grande sentimento di orgoglio. Mi sono detto: “Io ho contribuito a creare tutto questo!”.   E di che cos’è che eri orgoglioso, soprattutto?   In un’organizzazione, le persone sono come velivoli che viaggiano tutti ad altezze diverse. Il leader ha l’obiettivo di portare verso l’alto anche chi è abituato a viaggiare più in basso. Spesso mi capita di essere in riunione con alcuni collaboratori molto bravi e scrupolosi ma con la testa china sul loro campo di competenza tecnica. Io cerco di fargliela alzare. Voglio che si alzino in volo per vedere non solo il dettaglio ma anche la panoramica e soprattutto per cogliere il senso profondo di ciò che stanno facendo. Ogni volta che ci riesco, provo una soddisfazione molto più profonda e duratura di quella che mi darebbe una mia performance personale.   Guardare le cose dall’alto, Portare gli altri verso l’alto. Cos’altro è importante per il manager oltre che andare in su?   Andare in giù. Prestare attenzione a tutto quello che sta in basso ovvero alla base. Il manager efficace deve essere curioso e rendersi conto, con i suoi occhi e le sue orecchie, di ciò che accade e di come le persone, a tutti i livelli, vivono l’azienda. Tanti anni fa, quando eravamo ancora in pochi, io alla sera mi mettevo vicino all’uscita e chiedevo a tutti: “Com’è andata la tua giornata?” E se solo percepivo un vago malessere, insistevo per saperne di più…   Non è facile ottenere risposte sincere nei panni di amministratore delegato. Forse avresti dovuto travestirti.   Luigi XI lo faceva: si mascherava e andava in giro per Parigi, tra il popolo, chiedendo: “Cosa ne pensate del re?” Non gli bastava quello che gli riferivano i suoi consiglieri. Fu soprannominato il “re prudente” ma gli fu riconosciuto  anche di aver dato alla Francia dell’epoca unità e stabilità.   Ricoprire un ruolo vuol dire per forza mentire e non essere più se stessi?   Sono tra coloro che pensano che il fine non giustifichi i mezzi. Quindi per me il manager non può mentire. (Anche se la sincerità non va confusa con l’assenza di riservatezza.) Io non racconto bugie, a costo di provocare, talvolta, qualche malumore. Confido nell’intelligenza delle persone ma soprattutto nella possibilità che gli altri percepiscano in me autenticità e trasparenza. Del resto, solo i valori e i comportamenti virtuosi di un leader possono creare coinvolgimento e condivisione.   E la tua fiducia è sempre ben riposta?   No, qualche volta mi succede di venire deluso e ti confesso che  questo non mi fa dormire bene la notte. Tuttavia, il rischio più subdolo che vedo non è quello di essere ingannati ma piuttosto quello di mentire a se stessi.   A volte le persone sono sinceramente convinte di potercela fare.   Un leader deve senz’altro considerare la motivazione del  collaboratore come un tesoro insostituibile ma, allo stesso tempo, non può prescindere dal valutare le capacità e i mezzi effettivamente posseduti dalla persona. Al di là dell’entusiasmo.   Già. Una bugia può venire smascherata mentre erodere  una convinzione radicata da anni è molto più difficile. A proposito di convinzioni: tu sei proprio sicuro che la verità e la trasparenza siano le cose più importanti?   Prima di tutto separerei la verità dalla trasparenza. Spinoza diceva che “le convinzioni non hanno alcuna veridicità” e, qualche secolo dopo, Nietsche ha aggiunto che “proprio per la buona fede sottostante “le convinzioni possono essere più pericolose delle bugie”. Invece la trasparenza è un valore importantissimo nella relazione tra il manager e i suoi collaboratori e, in generale, tra le persone.   Da coach, mi trovo a  pensare che c’è una cosa che è ancora più importante della trasparenza.   E sarebbe?   La sostenibilità. Ovvero la capacità delle persone di accettare una certa verità e di farci i conti: non tutti ne sono in grado, non allo stesso livello perlomeno. A volte non è meglio tacere? O raccontare una piccola bugia?   L’ho detto e lo ribadisco: il fine non può giustificare i mezzi.     E allora come fai quando hai a che fare con persone non necessariamente preparate a sentirsi dire certe verità?   Il manager dovrebbe provare curiosità per gli altri, mettersi nella condizione di capire come funziona l’essere umano. In altre parole, necessita di sviluppare la propria intelligenza emotiva per sapere come rapportarsi con persone diverse e come dire, a ciascuno, certe cose.       Prima di calare il sipario su quest’intervista, ti racconto un dramma un po’ in stile Sofocle o  Corneille Ci sono due sorelle, abituate a governare insieme una certa società. A un certo punto, il grande capo che viene dal Nord decide di far fuori una delle due. Non solo: chiede all’altra di licenziare la propria congiunta, come condizione per mantenere il potere. Tu cosa risponderesti?   Ogni volta che mi sono trovato in situazioni difficili, che implicavano una scelta e una conseguente rinuncia, ho adottato la regola dei Sette Perché.   Vale a dire?   Chiederei a chi di dovere, in certi casi anche a me stesso, il perché di certe situazioni. Perché mia sorella si trova in questo guaio? Che cosa ha fatto o non ha fatto per indurre il Grande Capo a compiere una scelta così estrema? E cosa ho fatto io, a mia volta, per trovarmi sulle spalle una responsabilità del genere? E avanti di questo passo.     Quindi si può trovare un lieto  fine anche per i drammi alla Cid?   Forse. Io ci provo tutti i giorni.
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