La scrittrice ai neolaureati di Harward: «Tutto andava storto, smisi di illudermi». Di Emanuele Trevi
Come parlare a un pubblico di
persone molto giovani, in un giorno importante della loro vita? In che senso
l’esperienza accumulata, l’eventuale successo, il disincanto di chi invecchia
possono risultare utili a chi ha ancora i piedi sulla linea di partenza, e non
ha, non può avere la minima idea di come andranno le cose? La tradizione dei
discorsi ai laureati nei campus americani è molto istruttiva anche per chi vive
in un Paese come il nostro, dove il giorno della laurea è indubbiamente meno
solenne e spettacolare, e un pranzo in famiglia sostituisce lunghi riti ed
elaborate cerimonie. È dunque da salutare come un’ottima idea la traduzione
italiana del discorso tenuto ai neo-laureati di Harvard da J. K. Rowling.
Gesti pedagogici efficaci
Mai come in questi tempi,
percepiamo la rarità e la difficoltà dei gesti pedagogici realmente efficaci. È
troppo facile mettere questa difficoltà sul solito conto, sempre aperto, della
crisi dei valori e degli orizzonti di significato suggeriti da quei valori.
Sarebbe come dire che la realtà, nel suo complesso, è diventata la conseguenza
di errori talmente irrimediabili che non siamo più capaci di trasmettere dei
sentimenti che siano appropriati alla ricchezza, alla violenza, alla
fondamentale ambiguità della vita. Di fronte agli argomenti strettamente
razionali di una visione tecnocratica, questi sentimenti, bisogna ammettere,
sono del tutto inutili. In teoria, un flusso ordinato di informazioni da una
generazione all’altra potrebbe prescindere da ogni idea di formazione. È proprio
per questo che una tradizione come i discorsi ai laureati può rivelarsi
preziosa.
Il paragone con Steve Jobs
L’arte oratoria, affrontata con
la necessaria autenticità umana, produce scintille di vera poesia. Leggendo il
testo della Rowling, viene naturale confrontarlo a una simile occasione
perfettamente sfruttata, il celebre discorso ai neolaureati di Stanford
pronunciato da Steve Jobs il 12 giugno del 2005. Come figure del mondo adulto
che si rivolgono a dei giovani, il padre del Mac e la mamma di Harry Potter
hanno dovuto superare una notevolissima difficoltà iniziale. Oltre un certo
livello, il successo può azzerare la credibilità umana, minando l’empatia
necessaria a esprimere un’emozione reale. Entrambi gli oratori hanno aggirato
l’ostacolo che li separava dal loro pubblico percorrendo una strada impervia,
ma alla fine efficace.
Lettura obbligatoria
Bisognerebbe fare dei loro
discorsi una lettura obbligatoria per chiunque si dedichi a un’attività di
insegnamento, di educazione. Steve Jobs raggiunse il cuore del suo pubblico
quando decise di mettere al centro del suo ragionamento il più impopolare degli
argomenti, il meno adeguato a una festa per laureati: la morte, il ruolo della
morte in una vita libera e felice. Non meno geniale è la strategia di J. K.
Rowling, che ai laureati di Harvard sbatte in faccia un argomento che forse, in
quel contesto culturale, è anche peggiore della morte. Il primo dei due
argomenti che tratta, infatti, è il fallimento. O meglio, i benefici del
fallimento, «fringe benefits» nell’originale, con un’allusione intraducibile ai
fondi pensione, come a voler suggerire che proprio lì, nella cosa che spaventa
tanto, c’è un’inestimabile riserva di futuro. A soli sette anni dalla laurea,
racconta la scrittrice inglese, tutto era andato storto, dal matrimonio alle
aspirazioni lavorative. «Non conoscevo nessuno più fallito di me».
Il fallimento
Se J. K. Rowling a questo punto
avesse suggerito ai suoi giovani ascoltatori che c’è qualcosa di buffo o di
romantico in questo tipo di avversità, la sua non sarebbe stata che una
mistificazione, una vuota esercitazione retorica. No, non c’è nulla di bello,
di per sé, nel fallimento. Il bene non consiste nella cosa, ma nel suo riflesso
psicologico. La giovane donna che vedeva inesorabilmente realizzarsi le sue più
grandi paure proprio per questo motivo, senza nemmeno volerlo o meritarselo,
era diventata un essere umano più libero. Ma da che cosa ci libera la
sensazione dolorosa di avere fallito? Questo è il punto più essenziale del ragionamento.
L’illusione
«Smisi di illudermi di essere
qualcosa che non ero», ricorda la Rowling, con la sua abituale capacità di
esprimere cose grandi in poche e semplici parole. Quando le cose non vanno,
siamo costretti a rinunciare a quel disordine di possibilità, a tutte quelle
molteplici immagini di ciò che potremmo essere che soffocano e tengono
prigioniero ciò che veramente siamo. Non siamo noi a fallire, ma i nostri
fantasmi. Coniugata alla capacità di immaginazione, la consapevolezza del
fallimento diventa, nel racconto della Rowling, la chiave d’accesso all’unica
vita che è possibile vivere. È un’idea semplice e memorabile, quella offerta
dalla scrittrice agli studenti di Harvard. Essere più vecchi non ci abilita a
trasmettere verità. È solo l’esperienza che si può insegnare: a patto di averla
vissuta fino in fondo, spremendone il senso fino all’ultima goccia.