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Sperimento senza fare calcoli | 29.07.2014
Sperimento senza fare calcoli
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L'eccellenza secondo Andrée Ruth Shammah, direttrice del Teatro Franco Parenti
Signora Shammah, lei ha il merito di aver salvato quella che oggi è una delle più importanti istituzioni culturali milanesi. Che cosa l‘ha spinta a fare quello che ha fatto? La passione, anzi no, la vita. La vita ha deciso per me. E’ un percorso che ho capito a consuntivo, guardando all’indietro. Quando sono arrivata a Milano  avevo diciotto anni e tornavo da Parigi dove studiavo per entrare a l’Ecole Normale e mai avrei immaginato che la mia vita prendesse la piega che ha preso. Mi sono ritrovata a difendere questo teatro, non volevo, non potevo farlo morire, ma so perché mi sono impegnata con tanto accanimento, perché quando era chiuso traboccava di memorie, perché c’erano gli spiritelli, come amo dire io… quello che so è che per non mollare ho pagato un prezzo altissimo.   E cioè? Per esempio, il tempo che ho tolto agli affetti per dedicarmi al denaro che non c’era mai. Abituarsi a camminare sul filo (e non cadere!)     Se avesse accettato di dirigere il Piccolo Teatro, come le era stato offerto a suo tempo, avrebbe avuto meno problemi. Perché ha rifiutato? Mi sono trovata di fronte a un bivio: da un lato, il potere e mille possibilità di espressione artistica ma anche l’obbligo di rendere conto al potere. Dall’altro, la fatica di far quadrare il bilancio ma anche la libertà di dire quello che voglio, e perché no, vestirmi come voglio. Se avessi accettato la direzione del Piccolo, credo non sarei più stata me stessa.   Le avevano anche proposto di fare l’Assessore Stessa storia. Ogni volta che mi sono trovata di fronte a strade “ufficiali”, ho scelto di non percorrerle. Molti anni fa, mi chiesero di realizzare uno spettacolo a Parigi con Valentina Cortese. Ho preferito tornare al Pierlombardo (allora si chiamava così) e fare l’assistente di Franco Parenti.   Perché? Perché mi aspettavano. Non fa parte del mio modo di essere saltare sull’occasione e abbandonare i compagni di lavoro.   Però non ama il rischio. Al contrario. Io rischio molto ma, lo dico onestamente, ho scelto di farlo in un ambiente in cui mi sento protetta: questo teatro è per me come un monastero. Tendo a non muovermi andando in viaggio verso sconosciute vastità ma, in un pezzo di terra molto piccolo, percorro strade sempre nuove.         Quale episodio, nella sua carriera, ricorda con più soddisfazione?  Nessuno.   Come nessuno? Essere soddisfatta veramente è qualcosa che mi capita molto di rado, diciamo pure mai.   Mai mai? A volte mi sembra che il mio lavoro trovi una forma accettabile, ma non è mai una forma definitiva: definitiva è la morte, la vita è, per fortuna, una serie di atti incompiuti. Ecco perché “soddisfatta” è una parola che non mi si appartiene.   Allora, qualcosa di cui non è del tutto insoddisfatta? Quando con due lire, in una situazione pericolosissima, riesco ad arrivare in fondo, beh, dentro di me mi dico: ”non c’è Ronconi che farebbe quello che sto facendo io adesso”.   Un difetto di cui non farebbe a meno? Da bambina, a volte cacciavo una balla e poi ci credevo io per prima. Mi inventavo qualche cosa e ci credevo, dicevo “sto male” e poi veramente mi mettevo a piangere. Alla fine questo difetto si è trasformato in una capacità inventiva: mi sono inventata di salvare questo teatro e ce l’ho fatta, anche se non ci credeva nessuno. Mi sono perfino inventata delle storie d’amore e ho costretto l’altro a viverle …   E una qualità di cui, qualche volta, farebbe volentieri a meno? Tendo a dimenticare i torti e a rimuovere i fastidi: e questo diventa un limite in certi momenti, perché mi porta a non affrontare gli eventi negativi. Tempo fa mi trovavo a Lione, dovevo fare un’operazione molto seria, mentre ero in albergo ho ricevuto la telefonata di una dottoressa, mi comunicava che avevo un tumore; invece di pensare alla telefonata, alla notizia, ho scelto di uscire ed andare a pranzo in un grande ristorante, dove spesso ho pensato che mi sarebbe piaciuto andare. Ecco, a volte, nell’intento di proteggermi, tendo a fare come se niente fosse anche in situazioni drammatiche, benché poi arrivi un momento in cui non puoi più continuare a fare “come se”, ma a quel punto il problema è diventato già più piccolo.   Un pregiudizio? Ne ho tanti. Per esempio, nei confronti degli intellettuali e degli artisti troppo legati al potere.   Anche lei è stata accusata di essere legata al potere. Capisco che mi attacchino: anch’io, istintivamente, tendo a pensare che gli altri abbiano quello che hanno perché “sono amici di”. Ma se davvero le relazioni che ho, che ho sempre avuto mi avessero spianato tutte le difficoltà, crede lei che avrei fatto tutta questa fatica?!   Cos’altro dicono gli altri di lei che le suona strano?   Per esempio che non rispetto le persone. Chi mi conosce bene sa che non è vero, in teatro ho sempre fatto favori (e anche grossi) a tutti. Il fatto è che sono sempre stata molto sincera e non mi sono mai preoccupata di come i miei gesti e le mie parole venissero presi. Quello che mi dispiace non è tanto la mancanza di consenso quanto l’equivoco che si è creato. Oggi, se dovessi ricominciare, avrei più rispetto per il modo in cui mi vedono gli altri. Forse, infischiarsene è stato un atto di arroganza.   Quali sono i suoi valori più importanti? Non mollare. Continuare a fare seriamente le cose che faccio, senza cadere nel pressapochismo. Ma, nello stesso tempo, non prendermi troppo sul serio. Il teatro mi piace perché assomiglia a quei disegni nella sabbia fatti dai monaci: li realizzano con cura e poi, con una mano, disfano tutto. Anche il teatro muore e rinasce in continuazione... Ti accanisci tanto per ottenere un risultato, per far dire una battuta in un certo modo e poi, dopo trenta repliche, si leva la scena e non c’è più niente.   Ma come fa a unire un impegno così serio a un concezione così relativa del suo lavoro? Il teatro è come l’amore, come la vita: è una bellissima esperienza perché è  un’esperienza di sproporzione.   Che cosa significa “un’esperienza di sproporzione”? Il principio su cui si basa la società è: “investo tot e ottengo tot per il mio investimento”. In teatro non funziona così: tu dai ma non “in cambio di”. Dedichi del tempo infinito a uno spettacolo e porti a casa il piacere di avergli dedicato del tempo infinito. C’è una sproporzione tra la fatica che faccio e il risultato che ottengo ma non mi interessa, perché il mio obiettivo non è per esempio una bella critica, ma sperimentare fin dove sono capace. Non calcolo, non finalizzo le energie, agisco per ottenere il massimo dalle mie potenzialità.   Ma in questo modo non rischia di sprecare risorse? Penso che a volte la mia forza stia proprio in uno spreco delle qualità. Un mondo che perde questa sproporzione è un mondo povero, dove non mi piacerebbe vivere… mi illudo che non sia così   Davvero non le importano le critiche? Posso fare un brutto spettacolo e avere un bel giudizio o viceversa… non vuole dire niente. Uno spettacolo ha valore di per sé. Tutto quello che faccio vale di per sé, è importante perché è quello che sto facendo, fare i conti con mia verità.   Lei però fa un lavoro speciale. E chi fa un lavoro molto più normale? Utilizzo il teatro per sperimentare la vita.  Faccio del teatro come avrei potuto fare un’altra cosa: l’avrei fatta nello stesso modo. . Anche se fosse stata, che so, un’impiegata? Franco Parenti faceva l’esempio del tornitore che, nel suo tornio, ci vede il mondo. Io credo che se uno sa che in quello che fa c’è il mondo - tutti i viaggi, tutti i sentimenti, tutte le possibilità - beh, è più straordinario di una persona che ha un ruolo straordinario.   Lo psicologo americano Howard Gardner dice che l’eccellenza è fare in modo straordinario un lavoro ordinario. A tutti miei collaboratori dico sempre che non c’è un lavoro più bello dell’altro, ma è come lo si fa che lo trasforma.   E come lo sceglie un collaboratore? Da come si pone con me: se crede a quello che fa e non pensa a come gli verrà riconosciuto. Se, durante il colloquio, non parliamo di lui o di me, ma siamo entrambi concentrati su qualcosa che ci unisce.     Che differenza c’è tra un buon regista e un regista eccellente? Un buon regista confeziona un prodotto. Un regista eccellente non considera importante mettere in scena il testo bene o male ma cercare nuove strade di comunicazione: di sé, degli attori, di quel testo e del pubblico. E poi crea un contesto in cui gli attori danno il meglio di sé, dà vita a un meccanismo che mette in moto qualche cosa anche negli altri… le persone eccellenti, quelle che io ho incontrato, hanno fatto sì che succedesse qualcosa anche dentro di me. Io vorrei arrivare a fare lo stesso.   E quindi l’eccellenza è… E’ unicità. E’ un gesto che prima non c’era e che dopo non potrà più essere ignorato. Raggiungere l’unicità è il nostro compito nella vita: nell’unicità c’è la tua onestà, il tuo non avere paura di essere diverso, c’è l’accettazione dei tuoi limiti, ci sono i tuoi difetti. In una parola, ci sei tu.
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