L’intelligenza è sempre una forza o, qualche volta, può essere un limite? La testimonianza di Haim Baharier, il filosofo che pone la grandezza dell'uomo nella sua precarietà.
Professor Baharier, ha mai pensato
che un giorno avrebbe riempito i teatri di persone desiderose di ascoltarla?
Forse da
ragazzo, sognandomi Johnny Halliday o Jacques Brel… Comunque no, non ero
predestinato a questo. Di formazione sono matematico, filosofo e analista. E
per quanto riguarda il lavoro, mi sono sempre occupato di imprese, in primis quella di famiglia, di
industria e di commercio, ma anche di altro. Insomma, era cominciato tutto in
un altro modo. Le mie stesse lezioni, per anni, le hanno ascoltate solo
manciate di allievi.
La tappa del suo percorso che più ha
contribuito a renderla la persona che è oggi?
Ce n’è stata
più di una. Fondamentale, la nascita di mia figlia. Le dolorose difficoltà che
l’accompagnarono e l’incontro con la diminutio
mi hanno fatto risalire al nocciolo oscuro della mia interiorità e scoprire che
noi uomini siamo diminuiti, esseri claudicanti; condizione comune a tutto il
genere umano e che fa parte della nostra integrità. Esiste poi un’altra
motivazione ancora più antica: è una frase che pronunciò mio padre quand’ero un
ragazzino e lui mi portava con sé, in mezzo alla gente. Io allora ero di una
timidezza patologica e, in pubblico, me ne stavo sempre addossato al muro,
pallido e sudato. Un giorno mi disse, con il suo sorriso insieme dolce e
sardonico: “Non farti così piccolo che non sei così grande.” Lì per lì non capii
e mi misi a piangere. Ci ho messo anni ad afferrare il senso di quella frase:
ha a che fare con il trovare la propria umiltà. Perché essere umili non è alla
portata di chiunque. Spesso, nella timidezza, si nasconde un certo grado di
arroganza, con cui anch’io ho dovuto fare i conti.
E, dal ragazzino introverso che era,
come ha fatto a diventare così carismatico e disinvolto, quando parla in
pubblico?
A dire il
vero, mi meraviglio ancora oggi quando sento dire che sono “disinvolto” e
“carismatico”. Come il ventriloquo non muove le labbra così io sono diventato
molto bravo a nascondere il groppo che ho in gola ogni volta che parlo in
pubblico… Inoltre, l’essere così
esageratamente timido mi ha insegnato una cosa che mi è rimasta: sapere quando
stare zitto, il che è una dote fondamentale per un oratore.
Qualche episodio della sua vita di
cui va particolarmente orgoglioso?
Ah, guardi,
quanto a questo sono tranquillo: non ce n’è nessuno.
Come nessuno? Eppure ha avuto tanti
riconoscimenti…
Ho ricevuto
un‘educazione spartana per cui tendo a pensare che quello che ho fatto è sempre
un po’ meno di ciò che avrei dovuto fare: come se la montagna che ho scalato,
vista dopo, non fosse altro che un’infima collinetta.
Un po’ severa come educazione.
L’educazione
severa è da prussiani… Io la definirei demente. Sono figlio di reduci di
Auschwitz. Mio padre e mia madre erano polacchi, strappati dalla loro terra
d’origine. Si erano conosciuti in un centro profughi a Parigi, dopo la guerra.
Mi hanno educato senza avere nessun esempio davanti a loro, dato che avevano
perso tutto e tutti. Mio padre era solo al mondo, mia madre poco di più. Si
sono trovati immersi in una realtà diametralmente opposta a quella in cui erano
cresciuti e vissuti prima della guerra. Stranieri in terra straniera, estranei
a loro stessi.
E questo come ha inciso su di lei?
Posso dirle
che io, a Parigi, quando aprivo la porta di casa per uscire andavo all’estero,
ma anche quando riaprivo la porta per rientrare andavo all’estero. Per cui il
mio stato normale è quello di essere leggermente in dislivello, come spostato
rispetto al luogo dove dovrei essere… ma non si tratta di un modo di
atteggiarsi, oramai ce l’ho nel sangue.
E anche qui in Italia si sente
all’estero?
Sì, piacevolmente
all’estero, perché gli italiani spesso sono più accoglienti con gli stranieri
che tra di loro. Ho risieduto in tanti luoghi nella mia vita, ma da nessuna
parte mi sono sentito a mio agio come qui.
Che cos’è che la fa sentire così a
suo agio?
E’ difficile
spiegarlo. Per esempio, c’è una cosa che ho imparato da mio suocero, anche lui
straniero a Milano, e che trovo straordinaria: se vuoi una buona camera in un
albergo, in tutti i Paesi del mondo devi conoscere il direttore, in Italia
invece devi conoscere il portiere. Ecco, questo è uno degli aspetti che mi
piacciono della vostra cultura. Ha in sé un che di accogliente.
Quali sono i suoi valori più
importanti?
Non ci sono
valori più importanti. Nella tradizione di Israele, i valori hanno senso solo
se sono unificati e unificanti. Ogni volta che un singolo valore diventa
predominante si crea un’inevitabile contrapposizione con gli altri, che sfocia
in violenza. Perché quel valore viene elevato a idolo, diventa, per così dire,
un vitello d’oro. Non so se ha mai notato che la parola “idolo” è curiosamente
contigua alla parola “ideale”. Gli ideali sono stati gli idoli della modernità,
del fascismo come del comunismo. E con la loro assolutezza, solo nell’arco di
un secolo, hanno fatto milioni di morti. Purtroppo, la nostra battaglia contro
gli idoli non è ancora finita.
Tra gli idoli ha citato anche
l’intelligenza: perché?
Per tutta la
vita ho avuto il culto dell’intelligenza. Poi mi sono reso conto che si tratta
di un limite.
Un limite l’intelligenza?
Sì, perché
ci induce a fermarci sulla soglia della persona. Mi ci sono confrontato tante
volte, con questo limite, a proposito di mia figlia: anziché provare a conquistarsi
un’infanzia serena, Avigail ha passato anni a dover dimostrare continuamente che
poteva fare cose di cui le persone non la credevano capace. Oggi frequenta con
successo l’Accademia di Brera. Lì, buon per lei, gli artisti creano, non
giudicano.
C’è qualcosa di cui ha paura?
Più di una
cosa. Per esempio, ho paura che le mie parole siano fraintese. Ma mi rendo
conto che è una contraddizione dolorosa perché io per primo parlo sempre della
pluralità dei significati. E l’interpretazione è preziosa perché è una forma di
libertà consentita proprio dalla scrittura.
E allora come si difende dal timore
del fraintendimento?
In realtà,
con il tempo, ho imparato a tacere. Spesso , dopo che ho parlato in pubblico,
termino dicendo: le buone domande non hanno risposta e le altre domande non
meritano risposta. Pensi che io, nella mia vita, non ho mai fatto una domanda a
una lezione. Mai. Per me questo è un motivo di vanto.
Perché di vanto?
Perché le
buone domande non hanno risposta…
… e le altre non meritano risposta,
ho capito. Di che cos’altro ha paura?
In un certo
senso, di fare bella figura. Di non essere abbastanza severo nel censurare gli
autocompiacimenti.
E invece, non bisogna mai avere paura
di …
Di essere
emarginati, di subire l’ostracismo.
Che differenza c’è tra un buon
studioso e uno studioso eccellente?
Non lo so,
la parola “eccellenza” non fa parte del mio vocabolario. Anzi, mi fa anche un
po’ rabbrividire. Mi riappacifico con l’eccellenza soltanto se apro lo sguardo
a una visione più vasta: tutto il creato è claudicante e l’essere umano è
claudicante perché fa parte del creato. Ecco, l’eccellenza è l’assunzione di
questo stato. Capire che grandezza
e precarietà non sono un’alternativa, ma l’unico possibile modo di essere
dell’uomo responsabile. Stando così le cose, lo studioso eccellente dovrebbe
essere quello consapevole dei limiti e della relatività del suo sapere, anzi,
del sapere in generale.
Così però sembra più una definizione
dei limiti dell’essere umano che della sua straordinarietà.
In realtà
non è proprio così. Nel Talmud si dice che “il rampollo di David” ovvero il
Messia arriverà quando tutti avranno disperato della sua venuta. Che cosa vuol
dire? Che il mondo deve cadere per forza in preda alla disperazione prima che
arrivi il liberatore? No. Vuol dire che gli uomini devono rinunciare al Messia,
quasi non credere più nel suo arrivo. Ma solo perché questa è la condizione per
iniziare a pensare che sia l’identità umana a essere “messianica” e che la
risorsa per redimerci ce l’abbiamo noi, per definizione. Senza bisogno di un
deus ex machina. Questa è la vera eccellenza, secondo me.
Quindi l’eccellenza è la capacità di
salvarci da soli, anche se siamo “zoppi”?
Diciamo che
siamo condannati a farcela con le risorse che abbiamo.
Molte delle persone che abbiamo
intervistato danno esattamente questa sensazione: di essere state come
costrette a trovare in sé qualcosa che non riuscivano a trovare da un’altra
parte.
Già, anche
se accentuerei l’altra faccia della medaglia: la carenza che era in me l’ho
ritrovata nell’altro.
E a proposito, qual è la risorsa che
ogni tanto le difetta?
Il senso
dell’umorismo: non ne ho quanto ne vorrei. Mi piacerebbe averne così tanto da
poterlo infilare dappertutto.
Una qualità di cui qualche volta
farebbe volentieri a meno?
Affascinare.
E’ qualcosa che mi imbarazza un po’. Mi ricorda che la forma troppo spesso ha
la meglio sui contenuti.
La sua strategia di fronte a una
difficoltà?
Decuplicare
l’attenzione, tenendo conto che è nel piccolo che si lavora. Il grande filosofo
Lévinas diceva: “il più agisce nel meno”.
E da cosa deduce il valore di un
collaboratore?
Dai sogni
che lo fanno vivere.
Per finire, in che cosa consiste la
speciale eccellenza di Haim Baharier?
Nel far
vivere i testi con” glaciale passione”, come mi dicono alcuni. O, come amo dire
io, nel provare a “suscitare l’interlocutore”.
E che cosa significa “suscitare
l’interlocutore”?
Risvegliare
la parte migliore delle persone che mi ascoltano.